Metodi e presupposti dell’indagine grafica: le provocazioni della governance peritale
Dall’Ellenismo al villaggio globale del terzo millennio la tendenza è sempre quella di creare format prestabiliti. Bene la ricerca di una condivisione di scopi. La pena? La dispersione dell’unicità.
di Andrea e Francesco Faiello
C’era un tempo molto lontano in cui si sognava un mondo unito: non esistevano difformità o eterogeneità di ogni tipo. L’universo veniva contemplato in un’unica idea di crogiuolo di culture in cui, al massimo, attingere per imparare, poi arricchirsi.
L’inglese ha fatto molto e ha riempito tutte le distanze. Oggi chi viaggia ha con sé un passaporto verbale da poter prontamente esibire per farsi capire, senza barriere. Poi internet o il cavo (come si diceva una volta) ha fatto da strumento per collegare, anzi connettere, persone intrise di individualismi in una rete globale attraverso cui per capirsi. Per poi facilitarsi nella comprensione, si è preferito ragionare per tasti, per comandi, per input ed output: ecco che il vocabolario anglofono si è perfettamente inserito negli spazi in cui la facilitazione doveva farsi linguaggio vivo.
Si badi che è da sempre che la storia ci insegna la propensione dei grandi imperi, ovvero le estensioni territoriali di campo che fino a quel momento facevano il mondo conosciuto, a creare uniformità perlomeno superficiali per potere imprimere comandi a sudditi.
Probabilmente il primo panorama di mondo unito lo si è avuto con la Macedonia di Alessandro Magno. Il giovane condottiero ha reso possibile con le proprie conquiste l’Ellenismo, ovvero quel fenomeno di estensione (forse colonizzata) della cultura greca. E così, nel III secolo avanti Cristo, ampio spazio ebbe la diffusione della civiltà greca nel mondo mediterraneo, eurasiatico e orientale e la sua fusione con le culture dell'Asia Minore, dell'Asia Centrale, della Siria e della Fenicia, dell'Africa del Nord, della Mesopotamia, dell'Iran e dell'India. Nacque una civiltà, detta appunto “ellenistica”, che fu modello per altre culture relativamente alla filosofia, economia, religione, scienza e arte. La lingua ufficiale era il greco, ovvero un sistema segnico ed alfabetico che prendeva il sopravvento su ogni cosa, anche sui dialetti locali, anche sulla decifrazione delle usanze dei vari popoli conquistati.
La fine di qualcosa avviene allorquando ciò che è stato universo comincia ad essere solo parte di qualcosa. Il qualcosa, in questo caso, è divenuta provincia romana, esattamente quando è cominciata l’espansione del mondo latino che ha conferito egemonia, di fatto, dell’impero romano. Più animalesco della letteratura, più incisivo di cultura ed usanze è la forza bruta. Questa non chiede permesso per entrare in un territorio e stende solo il tappeto al potere che della stessa si serve per comandare, ordinare, disporre consegne ai sottoposti.
I romani, tuttavia, rispettavano tutto: l’idea era quella di insediarsi, per prendere atto di ogni diversità. L’intento non era di sopprimere religioni o usanze, ma solo di proiettare risorse territoriali verso Roma. Nei possedimenti conquistati al di là ed al di qua del Mare Nostrum. La lingua ufficiale era il latino che colorava in una sola tinta purpurea le varie difformità. Grande abbondanza e soddisfazione era garantita al multietnico, pluridecennale impero più grande dell’antichità.
In totale erano cinquantadue dei cento novantasei stati riconosciuti nel mondo, più tre parzialmente riconosciuti, il terreno di massima conquista romano che si espandeva su tre diversi continenti: Europa, Africa e Asia. In tutti i territori sui quali estesero i propri confini, i Romani costruirono città, strade, ponti, acquedotti, fortificazioni, esportando ovunque il modello di civiltà e, al contempo, assimilando le popolazioni e civiltà assoggettate, in un processo così profondo che, per secoli ancora dopo la fine dell'impero, queste genti continuarono a definirsi romane.
Un enorme patrimonio, dunque, quello lasciato dai Romani che, pur alla fine di tutto (ufficialmente l’impero romano d’Oriente terminò nel 1453 dopo Cristo), reali e religiosi continuarono a sfruttarne l’ingente patrimonio letterale, simbolico ed autoritario. E così per chiunque sia venuto dopo i romani, il latino, dunque l’espressione verbale, letteraria e documentale più alta, è divenuto la chiave di accesso al potere, alla legittimazione del predominio in ogni campo culturale e non solo. Il latino si espanso anche fino all’apprezzamento da parte dei popoli nemici, quelli che nel senato venivano chiamati “barbari”, perché, è dato assunto ed inconfutabile: Roma ha unito.
Con l’avvento del Cristianesimo, a maggior ragione, i sovrani hanno imparato che l’unico modo per tenere insieme i popoli non poteva che essere quello di creare vie uniche per la conversione di tutti, creando antitesi bene espresse tra quello che c’era prima di spurio e sbagliato e quello che viene dopo il Cristo, sceso sulla terra per liberarci. Ed in nome di Dio, e con l’ausilio del latino, si è dato il via a spinte di espansione, propulsioni contro i nemici additati come profani, colonizzazioni, caccia alle streghe ed alle ingiurie, guerre e battaglie di mero interesse economico. Come il greco, allora, ha unito anche il latino, oltre che il cristianesimo. In queste fasi storiche, però, il mondo era già cambiato e non si intendeva lasciare spazio alcuno alla induzione al cambiamento o alla semplice propensione verso ciò che, per governo e potere, è ormai divenuto ufficiale. Qui i conquistatori imponevano il cristianesimo, che nella forma più umana creata ad hoc, è divenuto anche strumento per intimorire le masse, col mero scopo di creare animi servili su cui regni e possidenti, e tutto il conseguente sistema economico di mercato, creavano terreno fertile per il proprio interesse e tornaconto. L’inglese di un tempo, allora, era il latino, sì, ma semplicemente come mezzo che conferiva tono e colore agli insediamenti di potere.
“È Gesù il tuo dio, e il latino la tua lingua. Convertiti, se non vuoi essere considerato male!”. Così recitava il diktat del tempo.
Poca attenzione alla unicità (religioso, politico, culturale, di appartenenza), dunque, e scarso rispetto per la multiformità umana, territoriale o, ancora, finanche religiosa, in nome di un disegno politico, distribuito nei secoli, che forza e plasma le coscienze per la facilitazione del comando autoritario, qualsiasi sia la forma.
La forza, in tali contesti storici, è stata impressa e tramandata subdolamente, fino a divenire credo di stato, anzi, di mondo conosciuto e sistema condiviso di valori su cui, ancora, fondare e costruire assetti.
Invero chiunque abbia cercato, in altri tempi, di prevaricare il prestabilito impianto di potere, poi, ne ha pagato le conseguenze. Ad esempio, Napoleone ha creduto di potere sfidare tutto ciò che l’assetto antico aveva disegnato e, così, attraverso il francese e l’utilizzo della religione secondo forma propria (“io mi incorono da solo” disse a Pio VII), creò il suo decennale impero per poi essere scacciato dai sovrani di mezza Europa a suon di “detrattore!”.
E allora gli inglesi, saggi e temprati, hanno bene inteso che l’unico modo per tenere insieme i cinquanta sei stati del Commonwealth non potesse che essere quello di rispettare ed accettare, creando compartecipazione piena e commistione dei popoli, la cultura di tutti. In questo quarto di mondo, allora, tutto sotto la corona di Carlo III si vive pacificamente, perché ciascuno è padrone a casa propria. Pertanto si cimenta nel proprio credo, si sente unito alle generazioni passate da una importante tradizione culturale, è visto nella sua interezza di individuo ma, al tempo stesso, parte di un mondo universale in cui si parla inglese ed il britannico, come status symbol, è ciò verso cui si aspira. Ancora una volta il trade d’union è il linguaggio, ovvero il sistema di decodificazione di molteplici realtà e di plurimi aspetti che si traduce nell’ufficiale ovvero in ciò che si parla nelle prefetture, nelle istituzioni che, quando si tratta di amministrare o di far quadrare i conti rispetta, sì, ma poi, alla fine rimanda tutto a Londra in nome di una visione globale, verso l’interesse di Impero.
Venne l’Europa ed il concetto di continente unito dopo le divisioni post belliche. L’impero, in questa sede, non è geografico o demoscopico ma unicamente economico. Il governo dei paesi è quasi sempre avocato là dove si batte cassa, ovvero verso quei piani e quei punti di interesse che mirano alla riscossione cui segue un indebitamento ammortizzato con piani di rateizzo e finanziamento duraturo. La trazione è tedesca, perché è la Germania il cuore pulsante dell’economia. Ciò che non va bene a Berlino, passa per Strasburgo e poi Bruxelles e si dirige verso l’espulsione. Se rientri nei bilanci e nei piani di investimento sei dentro, altrimenti misure forzate. E nell’epico scontro Germania – Grecia, quest’ultima battuta a tavolino per carenza di risorse, vige la Troika, ovvero ciò che tiene insieme le manovre economiche irreversibili di sangue e sudore che i popoli devono per forza sostenere onde evitare il collasso che salvaguardia l’equilibrio comunitario.
In questa logica, l’effetto a cascata sta sempre sul piano culturale che reietta tutte le plausibili comprensioni delle istanze uniche, quelle che, di volta in volta, hanno bisogno di comprensione, per poterne apprezzarne le realtà di sviluppo o di crisi e conseguentemente assisterle nella ripresa. Ciò che in Europa succede rappresenta l’esempio tipico di quello che è lo sperimentato modus procedendi. Si parla inglese e basta, ma l’inglese brutto e autoritario dall’accento tedesco che seleziona gli elementi posti sul tavolo di intervento, poi decide in nome del bene superiore (l’economia di mercato), dà ordini e comanda senza tenere conto delle multiformi realtà date dalla popolazione, dalla sua cultura e dai bisogni di essere considerati unici nel proprio sguardo di insieme.
Ciò che distrae dalle necessità è la sensazione di trovarsi in un mondo gigante unito dagli scambi interculturali, da internet, dall’esigenza di rispondere a una chat. Stare fuori da questo universo, vuol dire abdicare a quel sistema di valori che, ormai, tiene uniti tutti. Di facciata, allora, l’irrisione della globalità fai da te che ti fa rispondere ad una chat, dietro, invece, i sacrifici economici e di vita di chi, al caldo delle spiagge italiane o all’ombra del Partenone, si sente provincia del continente e sa di non appartenere, dentro di sé, a Berlino o a Bruxelles.
L’arte, la scienza, e tutto il mondo del sapere diviene, in tali inquadramenti di nuovo corso, perfettamente sminuito, poi ridimensionato in una visione antica, perché derivante da un mondo che non esiste più, perché in essere, adesso, diversamente. L’interpretazione, l’ermeneutica, la considerazione del minimo particolare che fa sostanza e massa della valutazione generalizzante o particolare, è superato, gettata nel ripostiglio, anzi, nel museo dell’umanità per come era fatta un tempo. La descrizione esauriente è considerata lungaggine espositiva; l’illustrazione costante e ripetuta nel corso della propria analisi diviene petulante ricerca di conferme all’occhio, quasi sempre disattento se non annoiato, del lettore; il linguaggio ricercato è cosa troppo forbita per la immediata presa visione dell’elaborato; ogni pretesa di precisione e specificità e di rispetto del mandato è pleonastico.
Chi vara sigle, anagramma e abbreviazioni derivanti da linguaggi anglofoni vuole vita semplice, per sé stesso e per chi legge. Esiste l’inibizione di tutto ciò che è very difficult, l’acronimo di concetti e teorie su cui gli studiosi hanno impiegato anni di ricerche, la call che risolve i problemi ed il meeting da remoto che non tiene conto dello sguardo de visu, attento e monitore per ciascun aspetto degno di nota.
Ogni dottrina è unita all’altra: viene fusa negli elementi essenziali e bistrattatamene sciolta nell’acido della terrificante smania di sintesi, anzi di essere smart. Ciascuna visione è vista approssimativamente, senza mirare alla tradizione culturale ed alla storica evoluzione da cui deriva, tanto è che è soggetta a propensioni alla acronimia ed alla semplificazione. Poi il perimetro dell’indagine è delimitato da baluardi bene espressi, ovvero da tutto ciò, fatto sigla, che rappresenta il pericolo di dispersione analitica. Ovviamente si parla inglese, di quello tecnico e incomprensibile, lontano anni luce dalla lingua che unisce, perché usato per fare censure, ammonire, segnalare, etichettare, semplificare senza realizzare di essere nella peccaminosa condizione di banalizzare, approssimare, bistrattare e, peraltro, non mirare il vero punto della commissionata indagine.
I Protocolli ENFSI dunque hanno avuto la pretesa di migliorare l’assunto giuridico e grafo- peritale, avvicinandosi ad un nuovo trend pieno di spine. Col pretesto di armonizzazione, uniformare e standardizzare le procedure metodologiche non si è procurato altro che l’effetto di rendere solo schematico, quindi carente, ogni approccio scientifico perché meritevole, come si è detto, su base peritale, di visione di insieme.
Le presenti indicazioni di metodo sono raccomandate dalla Comunità Scientifica
di riferimento ENFHEX, sottogruppo della Rete Scientifica di Istituti Forensi ENFSI, ed hanno la finalità di armonizzare, uniformare e standardizzare le procedure metodologiche al fine di rendere controllabile e verificabile il percorso logico-tecnico-deduttivo dell’esperto, rispettando le procedure delineate dal Comitato SWGDOC (Scientific Working Group for Documents Examiners) e dagli standard dell’American Society for Testing and Materials (ASTM), riportati negli attuali standard Board (ASB) 2021. In tale procedura è indicato il metodo ACE6 delineato non solo dallo standard ASTM E 2290-07a7, ma dalle più recenti indicazioni europee e anglosassoni.
Pertanto, la procedura indicata, è conforme e rispettosa del metodo individuato nel Best Practice Manual per l’esame forense delle manoscritture (ENFSI-BPM-
FHX-01), Versione 03 ottobre 2020.
Tali le premesse di un’indagine riprese da chi rispetta i protocolli d’oltremanica o d’oltreoceano. Alzi la mano, è proprio il caso di dirlo, chi ci ha capito qualcosa.
Di seguito, le proposte scale di espressioni verbali che, secondo lo Scientific Working Group for Forensic Document Examination (SWGDOC), dividono le etichette delle risultanze analitiche in forte, estremamente forte, in certa misura, di supporto ecc…
Tutto ciò che è l’osservazione è curato in una descrizione quasi sempre scarna e breve, peraltro condita anche qui, perché l’esibizione anglosassone è d’obbligo, in termini che non vengono mai di proposito tradotti.
Segue, da ultimo, una assurda comparazione attraverso un empirico incasellamento di simboli da risultanze di indagine in cui si perdono e si ammassano lettere, numeretti, azzardi di formule che sembrano chimiche. Degno di nota: la traduzione della cd. variabilità in “fattori integrati”. Manco si trattasse di strategie ingegneristiche.
Gli enfsiani, infine, concludono addivenendo ad una semplice risultanza schematica, in cui (non lo dicono loro, ma piuttosto le tavole di lavoro e gli scienziati della settorializzazione del rischio), se questo sta a questo o se questo non corrisponde, è da ritenersi omografo o il contrario. Semplice, no?
Che cosa rappresenta un elemento anomalo rispetto alla ordinarietà del grafismo sottoposti in analisi? Il contesto, lo sguardo globale non serve? L’indagine enucleante su un particolare, poi un altro ed un altro ancora della massa vergatoria dove mira? Ancora: sul metodo, perché gli incasellamenti formulistici? Che necessità c’è di riportare segni scientifici? I presupposti, poi, parlano chiaro: solo visioni scrictu sensu personalizzate attraverso la presenza fisica consentono all’esperto grafo- peritale l’ispezione attraverso la precisa osservazione dei particolari scrittorei. No collegamenti da cd. remoto, per favore. E giacché ci troviamo, no call risolutive, please.
Perché sì, l’inglese serve e che dio lo benedica nella misura in cui si è sempre protesi al prossimo, uniti nella commistione degli intenti dei popoli in pace, connessi in una artefazione di realtà che rende, dipendenze a parte, uniti.
Poi l’inglese serve come serviva il greco di Alessandro, come il latino dei romani e come serve oggi a tenere il passaporto sempre in tasca. Non serve per le misure forzate, per tradurre la Troika economica oppure quella scientifica. Né serve per veicolare tutte le energie di indagine e di interpretazione del particolare, anche qui, nella sua unicità e nel senso che il grafologo o il professionista conferisce, spodestando ogni aspetto derivante dalla tradizione e della cultura storica di chi ha lavorato, scritto e fondato le basi per il libero accesso al sapere da parte di tutti.
Bene la ricerca di ugual fine per tutti, ma in una aria di rispetto per i trascorsi e per quello che c’è oggi, sul piano del differente approccio. Nessuna avocazione al governo delle scienze, per favore, ma solo plurime realtà che, pur se parlanti un’unica lingua, si coniugano al meglio in un Commonwealth idealistico, nel quale si coesiste e nessuno censura l’altro per mancanza di rispetto al protocollo, per carenza di riferimenti dottrinali, quelli seri, quelli veri.