Dalla donazione di Costantino a Mani Pulite: come la grafologia ha inciso sulla storia.

Storie di testamenti, firme e reperti che hanno giocato un ruolo di rilievo negli aspetti politici e sociali.

di Francesco Faiello

La storia, di vita o mondiale, non si fa coi se e coi ma. Chiaro. Ma è altrettanto chiaro che determinati avvenimenti, politici e sociali, si sono evoluti e hanno prodotto effetti sulla vita di tutti per mezzo di precise ragioni.

Laddove non sono arrivati gli uomini, con le proprie capacità e le proprie lealtà, è arrivata la scrittura - magari il testamento presunto o la firma apocrifa - a rielaborare il calcolo strategico. Laddove si è contemplata la via di fuga, si è appalesato un segno, una traccia, un indizio grafico che, con somma furbizia, ha posto fine a tutti i tentativi di farla franca. Poi ci sono le scie grafiche. Vivono e sopravvivono in milioni di diari dove è segnata la vita, le nostre stagioni esistenziali. E se tra noi c’è chi, per ruolo o per prestigio, domina la scena, le scie che rilascia diventano sempre più veritiere, effettiva cartina al tornasole di presagi, paure o effetti derivanti dalla fenomenologia degli eventi che ingabbia, scoraggia, eccita e svela chiunque. La grafologia può cambiare la storia. Certamente l’ha già cambiata. La scrittura, più che altro, la si interpreta in una logica di traccia che gioca a diventare autentica, se apocrifa e apocrifa, se autentica. Dipende dagli interessi in campo, dalle smanie di potere, dal senso di grandezza o di svilimento dei molteplici assetti economici, politici e, dunque, consequenzialmente, culturali e sociali. Vero/falso - falso/vero è il tema relativo allo scritto discusso, l’incrocio binario di un dilemma che si fa, a seconda degli episodi e degli antefatti storici, sostanziale. “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!”

(Inferno XIX, 115-117) cantava Dante, riferendosi alla Donazione di Costantino, ovvero quel documento apocrifo costituito da un falso editto dell'Imperatore contenente concessioni alla Chiesa e utilizzato per giustificare la nascita del potere temporale dei pontefici.
Nel 1440 l'umanista italiano Lorenzo Valla dimostrò in modo inequivocabile che la Donazione di Costantino era un falso. Lo fece in un approfondito e tumultuoso studio storico-linguistico del documento, mettendo in evidenza anacronismi e contraddizioni di contenuto e forma: ad esempio, si contestava la presenza di numerosi barbarismi nel latino, dunque più tardo di quello utilizzato nel IV secolo. Altri errori banali erano rappresentati dalla menzione di Costantinopoli, allora non ancora fondata, o di parole come “feudo”. La storia conosceva, dunque, forse per la prima volta, il concetto di apocrifia, di fronte alla messa in discussione della veridicità di un documento che aveva posto le basi per sancire assetti fondanti in tutto il mondo. Curioso è ritrovare poi la perdurante validità di tali disposizioni per oltre un secolo di storia: tutto ciò che ne è conseguito, allora, è improprio? Sarebbe plausibile, svelate ratio e cause, dislocare anche gli effetti della disposizione? Il senso della domanda è comprensibile. E lo sarebbe certamente anche per la sorte del testamento di Carlo II che morì nel 1700 senza posteri diretti. Quale sorte, allora, per un pezzo d’Europa oggetto di eredità vacante? Gli Asburgo, casa regnante in Austria nonché imperatori del Sacro Romano Impero, rivendicavano il diritto alla successione; il rischio, poi, di vedere i Borbone sui troni sia di Spagna che Francia allarmò anche gli inglesi, preoccupati di vedere fondersi in un unico grande impero i paesi (e le relative colonie) sotto la medesima dinastia. La controversia, allora, condusse alla Guerra di successione spagnola (1702-1714) conclusasi, poi, col tramonto definitivo del prestigio mondiale della Spagna e la designazione al trono, come da presunta disposizione, da parte di Filippo V. Il testamento era falso. Carlo, infatti, prima di morire aveva reso noto di volere come erede un suo nipote Asburgo del ramo d’Austria, mettendolo per iscritto attraverso delle lettere, in modo chiarissimo e documentato. Se si fosse compiuto il volere di Carlo, il trono sarebbe finito ad altro erede e il destino della storia spagnola ed europea sarebbe stato certamente diverso. Sì, la storia non si fa coi se o coi ma, eppure la vicenda lascia senza dubbio incuriositi. Quali scenari si sarebbero aperti? Si sarebbe risparmiata la Guerra di Successione? E quali altre dinastie avrebbero rivendicato i troni d’Europa? La dinastia oggi regnante sarebbe legittimata? Domande a cui non c’è risposta, ma da cui emerge un dato di completa penetrabilità che riesce, ancora oggi, a mettere in crisi equilibri pregressi che, per l’effetto si rivelano, in tutta la propria precarietà, straordinariamente importanti. La storia di Carlo e di quanto è successo in Europa e nel mondo in quegli anni è tutta lì: in uno zeugma di responsi, in un’interversione della realtà, che ha scambiato dolosamente il vero per il falso, il falso per il vero, per un comodo equilibrio partitico. Calcoli ed intrighi, insomma, pur di nascondere la verità e di tenere il marcio, ciò che era scomodo, sotto la cenere per secoli, fino a quando due famosi autori contemporanei, Monaldi e Sorti, in un thriller che ha mescolato passioni e risvolti storici, hanno svelato la realtà che, ahinoi, amanti della verità, oggi non fa più paura a nessuno, nemmeno agli interessati. Si pensi che Juan Carlos, alla notizia della "scoperta grafo- peritale” relativa al suo predecessore, manifestò ad un giornalista il suo semi disinteressato stupore e con un aplomb squisitamente regale proferì

"Ah, Esto es Muy interessante...”
Persino Dreyfus oggi non avrebbe paura. L’indagine peritale presterebbe il fianco a valide cause, attenuerebbe agguerriti fervori e abbatterebbe apodittiche conclusioni. Siamo alla fine del 1800 e, all’epoca, l’analisi grafica poteva troppo poco rispetto agli antisemitismi, al sentimento di deprivazione alsaziana ed alle logiche rivali tra la Francia ed il resto del mondo. Era molto più facile urlare allo scandalo e, pretestuosamente, prendersela con chi poteva difendersi poco. Poi le revisioni dei processi, l’opinione pubblica ed il senso di indignazione fecero dire a tutti, a mò di Zola, “

j’accuse

” ed il Dreyfus fu riabilitato. Nel mezzo, però, anni di sofferenze, frustrazioni e percezioni di un mondo distante, perché altro dalle giuste cause. Qui, la grafologia come emblema della verità.
Verità che si ritrova solo nella quotidianità, ovvero nelle tracce di originalità che, da sempre, l’uomo rilascia per sé o, forse inconsciamente, per i posteri. Il Mussolini dei diari aveva la necessità di apparire anche oltre l’altro, manifestandosi la persona che era con le sue debolezze, i propri timori, i punti deboli. Alla sua amata si firmava “Ben”, rivelando segreti personali e politici e formulando richieste di sostegno e supporto, quando sentiva vicina la fine. L’autenticità c’è tutta e c’è, oltre l’indagine grafica, la cartina al tornasole del tentativo di un’impresa sciagurata da cui si credeva fermamente di poter uscire vincitori.  E la celebre firma “gladiolata" o "spadiforme" del Duce rivela la riduzione pessimistica del senso dell'io ed alternanza di visioni ottimiste e pessimistiche. Che debacle, l’Italia nella Seconda guerra mondiale! E che debacle grafo-motoria, la firma di Mussolini apposta in calce alla lettera che chiede asilo all’amico Churchill! Altro specchio del nostro paese è dato dal Memoriale di Aldo Moro: un’Italia sull’orlo di una crisi di nervi che non sa reagire nemmeno all’apocalisse. Un uomo di stato privato di tutto, ma non anche della libertà di credere di potere scegliere. “Rinuncio a tutte le cariche, esclusa qualsiasi candidatura futura, mi dimetto dalla DC, chiedo al Presidente della Camera di trasferirmi dal gruppo della DC al gruppo misto. Per parte mia non ho commenti da fare e mi riprometto di non farne neppure in risposta a quelli altrui”.

La grafologia accompagna il destino ad una svolta: l’uomo lasciato solo che, però, non perde mai la dignità e la forza del tracciato, ed accompagna il Paese al suo funerale, rassegnato, senza più velleità di migliorie.
Ancora pochi anni e tutto sarà con sommo pressappochismo dimenticato. Arrivano gli anni Ottanta e si esacerba la scalata alla smania di successo, di accumulo, di permessi non asseverati dalla legge, di voglia di sfiorare il proibito. Dei valori giusti e probi, in questa fase, non interessa più a nessuno. Poi compare un signore del Sud Italia, un uomo energico, scaltro e goffamente narcisista, ad affermare di voler ripristinare la legalità. Siamo a Mani Pulite, l’edonismo reaganiano è finito e, ancora una volta, tocca alla grafologia dire no. Di Pietro aveva firmato svariate banconote prima di consegnarle al titolare dell’impresa di pulizie al quale era stata chiesta una mazzetta. La notte del 17 febbraio 1992, l’intimato imprenditore si recava al Pio Albergo Trivulzio per favorire Mario Chiesa il quale, colto in flagrante, si difendeva reclamando la provenienza dei soldi. “

No, dottò, si sbaglia. I soldi sono miei.”

rispondeva Di Pietro, mostrando allo sgamato mariolo le proprie segnature a margine di tutte le centomila. È dunque con la rivendicazione di più firme, che si cominciava a svelare quel sistema di tangenti che aveva dilaniato l’Italia del secondo dopo guerra. È con la grafologia che cominciava Mani Pulite, pronta a servire la causa del vero, quindi della legalità.
Ma che non si sminuisca, la grafologia. Questa non è, perché non può esserlo, il destriero al servizio del padrone buono. Non è solo la voce foriera, a comando, della verità o della giustizia. La grafologia svela in maniera chiara gli obiettivi e le intenzioni da asseverare; non sta in una logica di comprimarietà. Essa è viva tra le scienze, prima tra le discipline. L’unico limite è l’arbitrio degli uomini, la vera fonte che può discostarla a piacimento, per servire l’uno o l’altro. Ma la colpa non è sua, perché nella grafologia (e con essa, naturalmente, nell’indagine peritale) non v’è interpretazione, ma solo segnali e aspetti netti.

Sotto a chi tocca, allora: la storia la scrive chi vince, ma la grafologia è in grado di stabilire vinti e vincitori, in nome della verità più assoluta: quella interiore, quella storica, perfino quella sostanziale.